sabato 14 novembre 2009

12- Tornare a casa - fr.Christian (novembre 2009)

TORNARE A CASA

Ciao carissimi!
Rieccomi a voi dopo un bel po’ di tempo, dopo i due mesi trascorsi in Italia. Non avendo “racconti cileni” da condividere, cercherò di mettere nero su bianco qualche pensiero personale. Ho intitolato queste mie righe “tornare a casa”, pur senza avere le idee chiare su ciò che questo significhi oggi per me. Tornare a casa: è l’espressione di un camminare, di un muovermi per rimettere piede nell’ambiente che più sento intimo, accogliente, mio. Eppure questa espressione negli ultimi due mesi ha assunto per me nuove sfumature.

Per un giovane frate già di per sè non è semplice definire quale sia la sua casa o, se vogliamo, la sua famiglia. Ma finora ero sempre riuscito a sdoppiarmi bene tra il mio simpatico paesetto tra i meli della Val di Non e la città di residenza dove l’obbedienza mi avesse mandato, tra la mia amata famiglia d’origine e l’accogliente famiglia dei frati, nella quale ho scelto di vivere e di volta in volta mi si destinava. Al mio rientro in Italia dopo due anni, a fine agosto, per la prima volta ho percepito la sensazione di rimettere piede in un mondo lontano, sempre accogliente nei miei confronti ma altrettanto distante rispetto al cammino intrapreso in terra cilena. Certamente non è cambiato l’amore per la mia famiglia, quella di sangue e quella dei frati, come del resto non è cambiata la percezione di vicinanza e comunione con moltissimi amici che ho potuto rivedere, ma per la prima volta ho percepito una piccola breccia che non è solo territoriale o inerente la mia scelta di vita, ma culturale e valoriale. Credo siano le prime avvisaglie di quel male che sovente colpisce coloro che vivono all’estero, missionari o migranti che siano, i quali vedono con occhio diverso la cultura, lo stile di vita, la modernità, la frenesia della nostra Italia e di chi ci vive, e faticano a immergersi di nuovo in una realtà che non è più del tutto la loro.



Da lontano forse i confini delle cose risultano più nitidi, meglio definiti, e si apprezza l’opera d’arte nel suo insieme, se ne colgono gli equilibri, la distribuzione dei pieni e dei vuoti, della luce, del colore. In un certo senso, pur non riuscendo a coglierne tutti i particolari, si notano meglio pregi e difetti dell’opera in generale. Per questo il mio ritorno in Italia, mediato dall’esperienza di questi due anni in Cile, è stata un’ulteriore possibilità di percepire tutta la bellezza di una terra tanto fertile e rigogliosa, di un mondo così ricco ed evoluto, di un benessere in cui non manca proprio nulla di veramente indispensabile, di un cumulo di possibilità offerte ad ogni abitante, a partire dal cibo e dai vestiti, dall’educazione e la salute, dallo sport e la valorizzazione del talento dei singoli, fino a giungere a tutte le infinite comodità e opportunità e varietà di scelta in quasi tutti i campi della vita. Al contempo impressiona la frenesia, la mancanza di riutilizzo delle cose puntualmente gettate nella spazzatura, l’insoddisfazione di molti, la percezione dei giovani che il futuro non sarà all’altezza degli sforzi fatti e delle competenze raggiunte, la solitudine e l’anonimato, il timore del diverso e la sensazione di mondi culturali paralleli che occupano gli stessi spazi urbani senza intersecarsi. E la carenza di sorrisi, le strade vissute come luoghi di transito, bimbi e nonni rinchiusi sempre dentro quattro mura... Nulla di nuovo forse, perché in due anni l’Italia non è poi molto cambiata, forse di diverso c’è solo il paio di occhiali di chi vi sta scrivendo.

In Italia mi è stato chiesto ripetutamente di parlare del Cile e l’ho fatto con gusto più e più volte, ed anche questo è stato utile per guardare da lontano la terra in cui ho trascorso gli ultimi due anni, ed accorgermi di ciò che è entrato a far parte del mio pensiero, del mio modo di agire, della mia quotidianità, talvolta senza nemmeno accorgermene. Mi sono ritrovato spesso con il pensiero rivolto alla voglia di comunicazione degli amici cileni dell’umile settore di Cartavio, dove è impossibile passare per strada senza aver scambiato quattro chiacchiere con qualcuno, dove ogni visita ad una casa si trasforma in una mezzora di dialogo, con la tazza di the in mano e l’obbligo di dimenticare l’orologio. E in Italia s’è materializzata in me la sensazione, quasi impossibile da spiegare, che la vita cilena in questi settori di periferia sia ancora determinata e incentrata sulle persone, che puoi incontrare su un marciapiede o una scalinata, sedute sulla porta di casa o in piazza, nel luogo di relax o di lavoro o di relazioni umane che si sono scelte. In Italia invece i luoghi sono dati, la mattina generalmente ci si sveglia sapendo già dove si sarà chiamati a trascorrere la giornata; ho ritrovato la piazza come luogo di relazione solo in città universitarie come Padova, ma ho attraversato il mio paesetto più volte senza incontrare nessuno, come pure altre città dove gli italiani “transitano” per le strade e solo i turisti le mantengono “vive”.

Ho imparato a valorizzare pure la pazienza degli amici cileni, la capacità di attesa – talvolta speranzosa, altre volte fatalista –, la serenità piuttosto che l’ansia di fronte al tempo che scorre. E di fondo si coglie la consapevolezza che il tempo e la vita sono nelle mani di Dio, per cui è superflua la preoccupazione eccessiva ed è consigliabile vivere accogliendo ciò che la vita può offrire a ciascuno, senza aspettare il domani per provare ad essere felici. Anche questo ovviamente ha le sue contro-indicazioni, induce a concentrarsi nel presente, quasi incapaci di progettare un futuro e di sforzarsi per conquistarlo. Bisognerebbe poter impastare gli ingredienti migliori, gli elementi positivi di ogni cultura; ma oggi sento che una vita a misura d’uomo e a vantaggio del suo benessere integrale passa per il suo mondo relazionale ed emozionale, prima che per il suo benessere economico e lavorativo. Forse l’emotività ed emozionalità dei cileni mi sta già contagiando...

Tornare a casa. Sull’aereo, mentre attraversavo l’Atlantico e l’Amazzonia, mi sono chiesto se il ritorno in Cile fosse dunque il percorso che più sentivo intimo e familiare, tuttavia la risposta non sgorga ancora immediata e spontanea. Per dirla in modo scherzoso, sento che oggi il mio mondo è qui, ma non ancora la mia casa. Non è una casa che mi possano costruire gli amici cileni; forse nel tempo imparerò a costruire pareti, per ora sento di aver gettato le basi. Quelle stesse fondamenta che ho ritrovato in Italia, ora le ho poste pure qui; ma per ora mi sento semplicemente “cittadino del mondo”, ancora straniero tra i cileni, forse un po’ strano o estraneo tra gli italiani. Però con la gioia e il gusto di sentirmi a casa un po’ ovunque, in ogni famiglia, comunità, casa, convento... dove ci sia un amico che mi riceva. Per questo voglio ringraziarvi di cuore per avermi accolto come persona e come amico nei momenti che abbiamo potuto condividere in questo tempo per me di vacanza e riposo. Ho un po’ di rammarico per non essere riuscito ad incontrarmi con alcuni di voi, ma – per spiegarmi in modo molto concreto – sono riuscito a vedermi solo con le persone che in queste settimane mi hanno scritto e cercato, non con tutte quelle che avrei voluto. Non ne abbiano a male gli amici con cui non siamo riusciti ad incontrarci: non è stata una selezione tra amici più o meno importanti, solo tra più o meno intraprendenti.

Ed ora vi saluto con gratitudine ed affetto, con un “arrivederci” probabilmente tra un paio d’anni, in attesa di sapere se potrò continuare a “costruire casa” qui a Copiapó, oppure se sarò destinato a Santiago o Curicó. Ma questa è un’altra storia, ve la racconterò la prossima volta. E che anche voi possiate sentirvi sempre e ovunque “a casa”, grati al Dio che ve l’ha donata! Un abbraccio.
fr.Christian

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