mercoledì 9 aprile 2008

4 - Copiapó - fr.Christian (aprile 2008)

COPIAPÓ un mese dopo...


Non so dirvi se quella notte in pullman fosse più carica di timori o di gioia, però qualche lacrima è scesa mentre abbandonavo Santiago per trasferirmi a Copiapó, giusto giusto quaranta giorni fa. È la lacrima che accompagna sempre i miei trasferimenti, quando – finalmente solo – posso ridere di me, dei sentimenti che mi attanagliano, dell’ironia e imprevedibilità con cui Dio accompagna la mia vita, della grazia che mi dona ovunque io vada, della casella vuota con etichetta “futuro”, che io vorrei veder sempre organizzata in modo logico e progettualmente armonico. Anche questa volta ho sorriso con qualche lacrima agli occhi: un po’ per l’emozione di girare una nuova pagina; un po’ per la gratitudine a Dio per come mi ha permesso di apprendere tanto velocemente quel po’ di spagnolo che mi serve per farmi capire e per quanto mi sono trovato bene, più del previsto, nella comunità di Santiago che mi ha accolto per tre mesi; un po’ per quel misto di sentimenti e sacro timore che penetra nell’anima di chiunque coscientemente si accinge ad entrare nel deserto per andarci a vivere.
Quando sorge l’alba, l’immagine che si staglia davanti agli occhi del viaggiatore notturno è densa di sabbia e nebbia, roccia e qualche cactus. Il deserto di Atacama ha tutto un suo fascino per il variare dei colori delle rocce e della conformazione delle valli, ma la nebbia che lo invade quasi ogni mattina gli dona un’aria davvero spoglia e tenebrosa, che ti fa percepire il suo silenzio anche se il rombo del motore non tace. Attendo impaziente quell’ultima salita che ormai conosco, quella da cui si cominciano a vedere le prime baracche nella discesa verso Copiapó. Faccio fatica a pensarla come una città, pur così vasta e colma di abitanti, forse perchè priva di edifici, di palazzi o di qualsiasi altra costruzione che si stagli contro il cielo e dia un po’ di volume a questo immenso formicaio di casette e baracche, dove quasi tutto è ad un piano, massimo due. Forse perchè costruiti in periferia, gli edifici che più colpiscono l’occhio di chi entra in città sono i grandi mall o centri commerciali, con quell’aria nuova e le grandi scritte colorate, spuntati come i funghi negli ultimi dieci anni.
Questa è la città che mi attende, città di minatori, di lavoratori stagionali nei vigneti delle valli limitrofe, di famiglie “di passaggio” al seguito di chi ha trovato lavoro per qualche mese o un po’ di anni. Un occhiata veloce agli amati numeri: 19.535 abitanti nel censimento del 1952, più di 150.000 quelli stimati ora, e mi è facile capire che non incontrò molte “famiglie storiche”, ma piuttosto tutti i problemi che la rapida urbanizzazione e le migrazioni interne portano con sè, come l’emarginazione, la solitudine, famiglie strappate alla loro terra d’origine e disgregate al loro interno, abitazioni che spesso sono semplici baracche di legno e fango con un tetto d’alluminio, lavori precari e... poi pian piano conoscerò anche il resto.
L’accoglienza non mi sorprende, né quella dei frati della mia comunità (Maurizio, Tullio, Enrico) di cui già conosco la benevolenza nei miei confronti, né quella della gente di Copiapò, già sperimentata nei giorni trascorsi qui durante le vacanze di Natale, per certi versi ancor più calda e sincera di quella ricevuta altrove nei tre mesi precedenti. Sicuramente la quasi totale assenza di quel traffico metropolitano e fretta e caos che si vive in Santiago, aiuta non poco a respirare un clima più familiare, più a dimensione d’uomo, e anche le celebrazioni in piccole cappelle con venti, trenta o quaranta persone permettono un’immediatezza e una spontaneità che facilitano la percezione di “sentirsi a casa”.
I primi volti che incontro sono quelli delle religiose cui celebriamo la messa: le monache domenicane che vivono in clausura alla periferia della città, le suore che si occupano della casa di riposo (hogàr) per gli anziani, quelle che gestiscono il collegio di Belén e quelle inserite nel settore (o quartiere) di Cartavio che ci è stato affidato lo scorso anno. Con loro incontro anche i primi “poveri” e le mie prime povertà: vado un po’ in confusione quando all’hogar mi chiedono di amministrare l’Unzione degli Infermi ad un anziano che ha passato una brutta notte e fatica a respirare. Sfoglio dieci volte il libro con il Rito di questo Sacramento, che non ho mai amministrato prima, e vi trovo un’infinità di preghiere per ogni evenienza che mi lasciano un po’ intontito. Mi consola vedere che la suora lì con me condivide la stessa confusione di fronte alla complessità del libro, abituata com’è ad ascoltare le solite formule immancabili; tra l’indice del libro e i suoi ricordi riusciamo a recuperare ciò che è essenziale. In stanza una giovane suora sta vestendo l’anziano, seduto sul letto, che ha sorpreso tutti per come s’è ripreso negli ultimi dieci minuti. Gli spiegano che c’è il prete e lui comincia a dirmi: “Non muoio, non muoio!” e mi fa un segno di forza con le braccia. Gli dico che l’Unzione è un aiuto per ritrovare la salute, ma non sembra molto convinto. Fortuna che dopo le prime preghiere lo vedo sorridere, tutto commosso, e da lì in poi, senza smettere di accarezzare la mano della suora, è tutto un sorriso e cenni d’intesa ad ogni preghiera che recitiamo. Gli insegnano a farsi un segno di croce. E anch’io ho imparato qualcosa in più e me ne vado felice del suo sorriso e della sua poca voglia di morire.
Con le suore del settore di Cartavio c’è invece da preparare il Triduo pasquale: anche loro sono arrivate in Cile a novembre, per cui cerchiamo di capire assieme come la gente della cappella sia abituata a celebrare la Pasqua. Le responsabili della cappella cercano di aiutarci, nella semplicità di chi mescola letture e adorazioni, ceri e campane, lavande di piedi e acqua benedetta... ma spiegando cosa succede giorno per giorno, riusciamo a riordinare anche le celebrazioni del Triduo, ovviamente rimpinguate di tante piccole spiegazioni perchè tutti possano capire il significato dei molti simboli, talvolta riadattati alla loro religiosità, per quanto la liturgia lo permette. E mi sorprende come le persone mi manifestano la gioia di aver capito. Comincio a rendermi conto di quanta sia la necessità di educare, e come sia cosa apprezzata se non viene vissuta dal piedistallo dei dotti.
Lo capisco ancor meglio in quello che, per ora, è il servizio più bello che svolgo, quello che mi mette in contatto con tanti volti sofferenti e grondanti di lacrime, anche se volti ancor giovani: è la settimanale mattina di confessioni al collegio delle suore di Belén. Perdonatemi una doverosa digressione per spiegarvi il concetto di collegio: altro non è che la italiana “scuola dell’obbligo”, con la differenza che generalmente offre tutto il percorso scolastico dall’asilo fino all’ingresso in Università (pre-kinder, kinder, 8 anni di basico e 4 di medio). Vi sono collegi interamente statali, altri comunali con una piccola retta dei genitori, altri privati con una retta più sostanziosa. Generalmente sono collegi di 600-1200 ragazzi. Solo alcuni hanno l’internato, cioè la possibilità di dormire all’interno. Non è quindi da ricchi andare al collegio, lo è andare al collegio privato. E quello di Belén non è un collegio per “ragazzi bene”, ma un collegio femminile frequentato da ragazze di famiglie tendenzialmente povere. Le confessioni spesso sono l’unica occasione per bambine e ragazze di essere ascoltate nei loro problemi e i loro drammi, generalmente legati all’ambiente familiare. La solitudine e l’assenza di dialogo sono abituali, a volte per incapacità di comprendersi, a volte semplicemente per mancanza di tempo quando la mamma lavora tutto il giorno e tutti i giorni. Il papà è una figura positiva solo per poche fortunate: il più delle volte è assente, per lavoro o perchè non c’è mai stato, mentre altre volte è dedito all’alcol e fonte di violenze viste e subíte. Poi c’è la zavorra di casi aggrovigliati, quando spuntano zie, nonne o garanti vari a sostituire genitori indaffarati altrove, per lavoro o nuove storie d’amore, o quando la famiglia si arricchisce di nuovi fidanzati e rispettivi figli. Così, nel tentativo non sempre riuscito di capire con chi vivano le ragazze, imparo a conoscere i drammi che affliggono la famiglia cilena, il maschilismo che ancora imperversa, le piaghe dell’alcol e della violenza, la confusione di ruoli e di genere che si crea, e il rifugiarsi di queste ragazzine nella droga fin da piccole, o in relazioni che le facciano sentire grandi, coccolate, protette. L’educazione di cui scrivevo prima mi appare necessaria quando colgo la novità di parole che spiegano sentimenti, diritti, ruoli... e per loro è un respiro di vita anche solo sentire che non è colpa loro, o che è normale provare sentimenti “brutti”, o che l’affetto che provano a dodici anni per una compagna non è la conferma di qualcosa di “sbagliato”. Spesso ricordo a me stesso che “non c’è nulla di scontato”, perchè ogni volto porta con sè una storia unica, a Copiapó ancor più che a Padova.
Poi ci sono i volti delle persone che incontro nella chiesa parrocchiale e nelle nove cappelle che cerchiamo di accompagnare, i loro sorrisi, le strette di mano, l’immancabile “ti stai abituando?”, seguito sempre dallo “speriamo ti possa sentire accolto dalla nostra gente”. E io rispondo di sì, perchè finora è così, perché sono felice di essere arrivato qui pur di fronte a un futuro ancora incerto e tutto da scoprire, felice per le persone che incontro e per la loro accoglienza, felice perché sto cominciando a gustare come il deserto, tremendo e affascinante, mi riporti ad un’esperienza di Dio, dell’uomo e di me stesso terribilmente essenziale, dove purtroppo i limiti risultano più marcati, ma anche dove emerge con più chiarezza ciò che è indispensabile nella vita, nella fede, nelle relazioni.
Dopo un mese credo sia prematuro aggiungere altro, per cui vi lascio con questo abbozzo di vita cilena e copiapina, col semplice desiderio di continuare a regalarvi uno sguardo su questa realtà vissuta oltre-oceano. Avete un po’ di tempo per sognarla secondo la vostra fantasia, poi la prossima volta vorrei farvi immedesimare anche con qualche fotografia. Abbiate un po’ di pazienza...
Un abbraccio dal Cile, anche a nome di tutti i cileni che mi chiedono di raccontare di voi, degli italiani, dei miei familiari, degli amici, dei ragazzi che seguivo in Italia, delle persone cui voglio bene...

CIAO!!! fr.Christian